Zamagni: errori fatti e strade da percorrere per uscire dalla crisi
Parlare con Stefano Zamagni coincide sempre con l’allargare l’orizzonte e saper vedere oltre. Esponente di punta dell’economia civile e presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, il professore dimostra la consueta lucidità, la proverbiale schiettezza e la capacità di fare proposte concrete e, non di rado, controcorrente. In questa intervista parla della situazione attuale a partire dalle scelte in ambito sanitario ed economico, finendo al ruolo del terzo settore. Sempre con lo sguardo rivolto al domani.
Professore, la pandemia che ha colpito il mondo era davvero imprevedibile?
E’ stato detto e scritto da diversi cosiddetti esperti, che questa pandemia è una sorta di cigno nero. Questo falso: un evento si qualifica come cigno nero ha le caratteristiche dell’imprevedibilità. Questa pandemia era stata invece ampiamente prevista. Tre anni fa lo aveva anticipato il professor Fauci, altri addirittura 10 anni fa.
La prima reazione è adeguata?
Troppi mistificano e confondono il concetto di fragilità con quello di vulnerabilità. E’ strano che anche persone colte e che hanno responsabilità inducano i cittadini all’errore. Fragilità è la condizione di una persona che non è in grado di soddisfare le proprie necessità, vulnerabile invece è il soggetto che al momento presente non ha problemi ma che ha una probabilità superiore al 50% di cadere nella fragilità nell’arco di un anno. La fragilità è uno stato già presente, la vulnerabilità è una evenienza futura. Noi italiani siamo superficiali e prestiamo attenzione solo alle fragilità: è ovvio che di fronte a queste bisogna intervenire, ma poi non ci poniamo il problema di come rafforzare le capacità di difesa, ovvero la resilienza, per ridurre in maniera notevole le vulnerabilità. In Italia negli ultimi 20 anni abbiamo disinvestito nella sanità e ridotto di 120mila i posti letto negli ospedali credendo di essere furbi. Anche qualche economista sanitario ha dato consigli a politici poco avveduti sostenendo che così si aumentava l’efficienza. Ma chi dice questo dimostra di non capire di economia.
Può spiegarci perchè?
Per il concetto di efficienza, introdotto da Pareto a fine ‘800, mentre prima esisteva solo quello di produttività. Pareto dice che si può parlare di efficienza solo legandola al fine da raggiungere. E’ inutile dire che la sanità deve essere efficiente, il fine della sanità è di salvare le vite umane oppure no? Solo dopo aver definito questo potrò dire se una certa procedura è efficiente o meno. Invece negli ultimi 20/25 anni a causa di questo errore dovuto a una scarsa cultura in senso scientifico (non dimentichiamo che l’economia è una scienza morale, le tecniche matematiche e statistiche ci vogliono ma non sono l’economia) abbiamo ridotto i posti letto e i presidi territoriali. Poi ci sono differenze tra regione e regione, il modello lombardo è quello che ha i buchi più grossi.
Proprio la Lombardia paga il prezzo più pesante al coronavirus. Come mai?
Alcuni consulenti, credo e spero in buona fede, hanno dato consigli sbagliati e lì si è puntato tutto sulle strutture ospedaliere e non sul presidio del territorio, in Emilia Romagna si è fatto un po’ meglio sia pure con errori. E’ vero che la Lombardia ha i migliori ospedali, strutture di altissima qualità, ma se non presidi il territorio con un network di medici di base e con strutture come le Case della Salute, il risultato è quello che stiamo vedendo. Quando arriva una pandemia la struttura ospedaliera serve a poco, devi essere vicino al paziente nel punto in cui vive. Non si può dire a chi vive a 150chilometri da Milano di andare all’Humanitas. L’altro grande errore è stato di largheggiare troppo nella sanità privata. Ma anche qui occorre una distinzione.
Quale?
Quella tra privato for profit e privato non profit. La differenze è enorme, anche se nessuno lo dice. La sanità privata for profit semplicemente non ha ragione di esistere, non si può fare profitto sulla situazione di soggetti che sono obbligati a fruire di un servizio. Lo diceva già Adam Smith, non si può fare profitto sui beni pubblici. Il profitto presuppone la scelta libera da parte del cliente, ma non sono libero di andare all’ospedale oppure no. In questo gli americani sono molto più avanti, la sanità privata negli Usa è per il 95% non profit, infatti è gestita dalle università o dalle fondazioni. Gli americani sanno che non è lecito moralmente estrarre profitto da una attività che non soddisfa la libertà. Nell’economia di mercato sia sul lato della domanda che dell’offerta deve esserci libertà, ma nella sanità non sono libero di scegliere. Questa vicenda nei prossimi mesi ci obbligherà a rivedere non poche cose. Anche nel modello di sanità pubblica italiana, che non è esente da critiche.
Quale è la principale critica che muove a questo modello?
Da noi i medici sono ‘double agent’, ovvero hanno due principali: l’amministrazione e il paziente. Non è possibile che un medico possa essere agente di due principali che hanno funzioni obiettivo opposte. L’amministrazione, che in sanità ha base regionale, ha la funzione obiettivo di non superare i tetti di spesa, il paziente di ricevere le cure e i trattamenti che ritiene giusti. Il risultato è quello che vediamo e basta parlare con i medici per sentirne le lamentele. E’ inutile andare avanti con l’ipocrisia che l’attuale modello va bene, perché questo è falso ed è necessario cambiare. I medici sono messi in croce, anche per il degrado di certi avvocati che incentivano a sporgere denunce. La conseguenza è che i medici praticano i protocolli alla lettera, ma questo non fa giustizia né al paziente né al medico, che la notte non riesce a dormire perché sa che agisce contro il proprio codice morale. Prima gli amministratori pubblici capiranno questo e meglio sarà per tutti.
Veniamo all’economia: cosa va e cosa non va della risposta che è stata data finora alla crisi in atto?
In parte ho già risposto, i decreti sono volti a curare le fragilità ma non a rafforzare le difese contro la vulnerabilità. Sono provvedimenti necessari, è inutile fare gli ipercritici di maniera, ma non sono sufficienti. Se devono raddrizzare le gambe storte del nostro sistema economico non bastano, perché non aiutano a fare tre cose determinanti. Primo a deburocratizzare il sistema, secondo ad aumentare il tasso di imprenditorialità, terzo a modificare alla radice il sistema scolastico universitario che fa acqua da tutte le parti. Questo non per mancanza di risorse, ma perché l’impianto strutturale e filosofico è sbagliato e ancora di tipo tayloristico. Le nostre scuole e università sono la trasposizione in ambito educativo di quello che è stato il modello tayloristico nelle fabbriche, ma di questo nessuno vuole che se ne parli anche nel mondo dei professori. Invito ad allargare l’orizzonte e vedere cosa succede in Germania, in Francia, in America, in Inghilterra dove l’impostazione che ho criticato è stata superata da anni.
Il terzo settore in questa crisi è stato tenuto ai margini. Come mai secondo lei?
Perché in Italia la mentalità burocratico statalistica è ancora dominante. E lo è trasversalmente, non è tipica di destra o di sinistra, tutti ce l’hanno. In Italia non si vuole ancora aprire al principio di sussidiarietà circolare di cui parla l’articolo 118 della Costituzione. Questo principio è nato storicamente in Italia, in ambito cattolico, la prima formulazione è di Bonaventura da Bagnoregio a fine 1200, mentre ci sono studiosi che continuano a dire che sia stato Grozio nel 1600, più di tre secoli dopo… La sussidiarietà è sulla bocca di tutti, ma si parla di quella orizzontale che non è la vera sussidiarietà. Quella circolare fa sì che l’ente pubblico qui lo Stato, le imprese e la società civile organizzata, ovvero gli enti di terzo settore, debbano interagire in maniera sistematica con parità e dignità di capacità propositiva per decidere insieme la priorità degli interventi, la modalità di gestione e il reperimento delle risorse. In questa vicenda della pandemia ciò non è avvenuto: il terzo settore è stato tenuto come la ruota di scorta e questa è una offesa alla dignità di questi soggetti che con generosità si dedicano agli altri. Se ho la capacità di dedicarmi perché non devo essere coinvolto nel momento decisionale? E’ chiaro che il Governo ha l’ultima parola, ma nel penultimo stadio tutti devono intervenire e dare consigli. Sono certo che la situazione che si è venuta a creare con questa vicenda triste possa servire, terminata l’emergenza, a far riprendere il cammino aperto dalla legge 328 del 2000, la legge Turco che era una buona legge e che parlava di coprogettazione. Oggi si confonde la coprogettazione con la consultazione, ma questo è ridicolo, perché l’ente pubblico consulta e poi decide di testa sua. Quello che serve è ripartire da una vera coprogettazione e, dunque, dalla sussidiarietà circolare.